L’espressione mos maiorum, letteralmente costumi degli antichi, indicava nell’antica Roma l’insieme dei cinque valori principali che un buon romano doveva possedere: fides, pietas, majestas, virtus e gravitas. 

La fides era la fede, il poter confidare sulla parola data senza contratti né testimoni. Nel diritto romano questo valore rivestiva un ruolo cruciale e nel caso in cui fosse stato tradito la persona lesa poteva intentare una causa contro l’altra per mancata lealtà.

Gli antichi ritenevano che la fides abitasse nella mano destra di un uomo – la mano dei giuramenti – e era rappresentata sulle monete con un paio di mani coperte. Da qui nacque il giuramento nei tribunali imponendo la mano destra su un libro, civile o sacro. 

Fides fu un culto molto antico e il primo tempio in suo onore fu costruito sotto Numa Pompilio, sul colle Capitolino, vicino al Tempio di Giove. La dea della buona fede era descritta come una vecchia donna, ma rappresentata sempre come giovane.  

La pietas era la devozione, la protezione e il rispetto dovuto agli dèi, alla patria, ai genitori, ai parenti e agli schiavi. 

Cicerone riteneva che la pietas fosse la giustizia verso gli dèi e, come tale, richiedeva un’accurata osservazione dei rituali per il sacrificio e una corretta esecuzione ma anche la devozione e rettitudine interiore della persona.

Livio narra che alla Dea venne dedicato un tempio nel 181 a.C. e che era rappresentata spesso in formaumana, come una donna accompagnata da una cicogna.

La majestas indicava la dignità dello stato come rappresentante del popolo, valore poi trasferito all’imperatore stesso. Da ciò deriva il reato di lesa majestatis, ovvero un crimine verso lo stato per coloro che deturpavano opere pubbliche, o nei confronti dell’imperatore o del senato romano. 

Questo valore aveva anche il significato della grandezza di un popolo, cioè l’essere fieri di appartenere al popolo romano, come il migliore perché superiore agli altri per civiltà, cultura e costumi. 

La virtus deriva dal termine latino vir (uomo) e comprendeva ciò che costituiva l’ideale del vero uomo romano. Il poeta Lucilio riteneva che la virtus per un uomo consistesse nel sapere ciò che è bene e male e designava anche il valore in battaglia dell’eroe e del guerriero. 

La virtus era tale solo se non messa al servizio dei propri interessi, come la ricerca del potere.

Questo valore era ereditario e i discendenti di uomini virtuosi avevano l’onere di seguire le orme paterne e di dimostrare di esserne degni. A partire dal I secolo a.C. la virtus non è più una virtù che si trasmette di padre in figlio ma può essere ottenuta dal civis novum attraverso le sue gesta e quelle degli antenati. 

L’ultimo valore era la gravitas che corrispondeva al rispetto della tradizione, alla serietà, alla dignità e all’autocontrollo. Questo contegno doveva essere dimostrato dal buon romano di fronte a qualsiasi avversità.

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